Il nemico invisibile
Matteo si era alzato insolitamente allegro quella mattina.
Aveva aperto le finestre e respirato a pieni polmoni l’aria frizzante di febbraio.
Allungando le braccia in alto per stiracchiarsi, aveva osservato il cielo di un blu intenso attraversato da nuvole bianche leggere, dalle forme più bizzarre, che correvano veloci sospinte dal vento.
Il sole splendeva regale lanciando i suoi raggi caldi a riscaldare e illuminare la città che cominciava a muoversi frenetica.
Da quel momento un susseguirsi di notizie spaventose aveva iniziato a diffondersi in Italia e nel mondo. Il coronavirus era arrivato anche da noi. La vita di Matteo era stata investita da un uragano invisibile, silenzioso e devastante.
Fino ad allora aveva ascoltato le notizie terribili che giungevano dalla Cina come qualcosa che non lo riguardasse. Un nuovo virus, altamente letale e pericoloso, aveva colpito un paese di un miliardo e quattrocento milioni di individui. Centinaia di milioni di persone erano state isolate, tante vite sconvolte, molti morivano, ma la cosa non lo riguardava direttamente. Così come molte notizie che affollano ogni giorno i telegiornali con resoconto di morti: guerre, barconi che affondano, inondazioni, terremoti, incendi. Così, come la maggior parte della gente, Matteo li ascoltava, si rammaricava per un attimo, poi la vita continuava.
Da quel giorno la vita di Matteo era stata stravolta completamente.
I suoi genitori, risultati positivi, erano stati ricoverati in ospedale in terapia intensiva. Erano anziani, senza patologie pregresse, la loro situazione era comunque grave, facevano fatica a respirare, i ventilatori erano pochi. Aveva sentito dire che se dovevano scegliere a chi darli, sarebbero stati preferiti i giovani. Matteo non poteva comunicare con loro, aveva fatto appena in tempo ad appoggiare un disegno con un cuore sulla vetrata, poi l’avevano messo in quarantena. In ospedale aveva potuto assistere ad uno stato di assoluta disperazione, era come si fosse in guerra. Decine di operatori sanitari si muovevano come api laboriose con turni massacranti, eroi solitari, in mezzo a sguardi persi e disperati. Stressati fisicamente e psicologicamente, vestiti come marziani quando erano a contatto con i malati, con il sudore che copre il viso distrutto dalla fatica e dallo sgomento e con la paura costante di ammalarsi.
Giorgia era la fidanzata di Matteo. Non era stata a contatto con lui e i suoi genitori, perciò non era in quarantena, poteva parlare con il suo ragazzo solo con il telefono cercando di sollevare quella terrificante disperazione.
Anche lei era isolata a casa con suo padre e sua madre. L’Università era chiusa, i genitori erano commercianti che avevano dovuto chiudere il negozio. Tra una settimana avrebbero dovuto andare in vacanza a Tenerife per festeggiare il loro trentesimo anniversario di matrimonio. Ora non sapevano se avrebbero mai potuto riaprire il negozio, che già andava male, non sapevano neanche se sarebbero sopravvissuti. Il papà di Giorgia aveva 61 anni ed era diabetico.
Giorgia andava a fare la spesa, con la mascherina e i guanti, lunghe code di persone a rigorosa distanza, ognuno osservava l’altro come un appestato. Le strade erano vuote, la città era desolatamente ferma. Il nemico invisibile, quel virus maledetto stava distruggendo le loro vite. Un nemico che non potevi vedere, che non potevi combattere, potevi solo cercare di difenderti. I social erano pieni di notizie, tanti fake, che creavano panico e confusione, i rapporti tra le persone però si facevano più stretti, anche solo virtualmente.
Alle 18.00 il bollettino della protezione civile comunicava, ogni giorno, sempre più contagiati, tanti in terapia intensiva, sempre più morti. Con tono sollevato riferivano che l’età media di chi moriva era di 80 anni. Era come se quelle persone anziane potessero anche morire, non avessero un valore umano, erano vecchi.
Matteo assisteva sbigottito a quei bollettini. Numeri crudi, senza anima. Lui si rendeva conto che dietro a quei numeri c’erano persone vere, reali, con un’anima e un cuore oltre che parenti, amici, figli, nipoti. Tra loro, magari tra un po’ potevano esserci anche i suoi genitori. Sapeva che se fosse accaduto non avrebbe neanche potuto salutarli, confortarli stringendo loro la mano, accarezzandogli il viso per un ultimo saluto d’addio. Sarebbe rimasto solamente il loro sguardo perso nel vuoto, alla ricerca di aiuto, di una parola di conforto e di speranza.
In quei momenti di triste desolazione, l’unica cosa positiva era una solidarietà a distanza che univa le persone.
Matteo, seguendo il messaggio dei social, si era trovato sul balcone alle 12.00 ad applaudire gli eroi degli ospedali, che tanto stavano facendo in condizioni terrificanti sia da un punto di vista morale che pratico. L’applauso che arrivava dai vicini era forte, caloroso, era diretto agli eroi dal camice bianco e verde ma serviva anche a sentirsi più uniti contro quell’avversario invisibile che li minacciava senza farsi vedere.
Matteo si addormentò con la speranza che al termine di quella orribile esperienza ognuno di noi avrebbe fatto un esame di coscienza, potendo comprendere e apprezzare i veri valori della vita. Matteo si augurò che quando tutto fosse finito il virus avrebbe potuto purificare le cattiverie, gli egoismi, il materialismo del genere umano, trasformando quel nemico non tangibile e visibile in una cura di bontà e altruismo. Sognava di svegliarsi e di aprire gli occhi in un mondo finalmente diverso, con uno spirito nuovo, con la gente capace di aiutarsi a vicenda e di apprezzare quello che ha, giorno per giorno.
Io per primo non dimenticherò questa lezione, pensò Matteo prima di spegnere la luce.
Un racconto di Tomaso Nigris